CRIMINOLOGIA e DIRITTO

I SERIAL KILLER: Callisto Grandi, l’ammazzabambini

Callisto-GrandiLa storia che stiamo per raccontare rappresenta un esempio di come la macchina della giustizia possa avere un rapporto di incompatibilità con la psichiatria forense.  In un articolo del 1881 Cesare Lombroso prendeva posizione nei confronti del verdetto contro Callisto Grandi, noto come “L’ammazzabambini”, condannato dai giudici senza tener conto delle problematiche psichiatriche caratterizzanti l’imputato. Lombroso considerava particolarmente grave e paradossale quella scelta giuridica.
Cesare Lombroso definiva il Grandi un “cretino”: termine che allora aveva un preciso valore scientifico, ben diverso da quello che attualmente caratterizza il linguaggio comune. Il cretinismo era una realtà posta in relazione alle condizioni socio-sanitarie ed infatti si poteva leggere nei volumi dell’epoca che <<la miseria non è diretta conseguenza del cretinismo ma un elemento favoritore, incubatore. E’ un morbo antichissimo ed esteso per ogni parte del globo. Il numero di questi infelici è più grande che non si pensi comunemente>>. Il cretinismo, secondo Lombroso, era scandito in tre stadi e caratterizzato dalla presenza di istinti e tendenze crudeli e feroci.

Callisto Grandi nacque ad Incisa Valdarno nel 1849, orfano e senza una vita sentimentale, aveva una bottega nella quale riparava e costruiva carri. Il Grandi aveva un curriculum particolarmente inquietante: tra i 24 ed i 26 anni uccise quattro bambini, secondo quelle modalità che sembrerebbero caratterizzare l’omicidio seriale, non necessariamente connesso alla pedofilia. Nel comportamento del Grandi, infatti, mancano elementi che possano far pensare ad un tentativo di relazionarsi sessualmente con le vittime ma, così come si evince dalle dichiarazioni dell’assassino seriale, l’azione omicidiaria sembrava strettamente correlata ad un forte desiderio d vendetta. Disse, infatti, durante il processo: <<mi canzonavano, mi prendevano a burla, mi dileggiavano, mi dicevano pelato, ventundito perchè ho un piede con sei dita, e mi dicevano guercio e nano e mi facevano il capo grosso e quando venivano in bottega mi facevano sempre qualche biricchinata>>.
Callisto era quindi vittima delle burle dei ragazzini che si aggiravano intorno alla sua bottega di cardatore, ad Incisa Valdarno, e di questo l’uomo andò a lamentarsi anche con il sacerdote del paesino ma nessuno gli dette però ascolto.

Dalle cronache dell’epoca traspare l’immagine di un uomo di bassa statura, calvo, <<da non trovarne esempio specialmente a quell’età>>. La testa era infatti sproporzionata rispetto al corpo e con una <<faccia corta e con certe sporgenze ossee che unite ai cigli ed alla guardatura>> gli conferivano un aspetto che un cronista dell’epoca non ebbe remore a paragonare ad <<un ourang-outang>>. Affermazioni forti che all’epoca trovavano anche terreno fertile grazie alla pubblicazione di Charles Darwin ne “L’origine della specie” (1859) in cui, per la prima volta, si affermava che l’uomo derivasse da un forma preesistente.

Senza ricorrere, però, ad alcun riferimento al darwinismo, per i ragazzi che si intrufolavano nella bottega del Grandi, quell’uomo divenne oggetti dei loro giochi crudeli, inconsapevoli che a quel punto era stata innescata una bomba pronta ad esplodere. La follia, infatti, esplose ma in modo lucido, ragionato: Callisto meditò la sua vendetta con calma e poi, per quattro volte, uccise.
Fingendo di non provare alcun astio nei confronti delle sue vittime, riusciva, di volta in volta, a portarle all’interno della bottega offrendo loro giocattoli e, in alcuni casi, anche del denaro. Il modus operandi era sempre lo stesso: dopo che i piccoli entravano nella sua bottega, venivano uccisi con una pesante ruota. Un colpo contundente di grande effetto, come sottolineò il serial killer <<la ruota colpì nelle reni e restarono stecchiti>>. Quando le vittime entravano nella tana del loro assassino, la loro tomba era già stata preparata: si trattava di una piccola fossa, non molto profonda.

Il primo, Luigino Bonecchi di 4 anni, venne seppellito nel sottoscala della bottega, dove vennero rinvenuti i suoi resti due anni dopo la sua morte. Ognuno delle vittime aveva una “colpa” che doveva essere punita con la morte.
Scherzi di ragazzi, seppure violenti e crudeli, determinarono una reazione inattesa che dimostrano come sia misterioso l’universo della psiche umana. Tra i torti subiti, il Grandi ricorda quello messo in atto dalla più piccola delle sue vittime: <<Uno mi tinse il viso col pennello e stetti col viso tinto per tre giorni perchè era tinta ad olio […]. Una sera venne nella mia bottega ed io avevo fatto una buca apposita nel sottoscala in modo da mettercelo appena mi capitava in bottega. Mi capitò, lo portai là nella buca, lo gettai giù e lo coprii di terra e sopra ci misi la legna>>. Già da questi pochi elementi cruenti nella dichiarazione dell’arrestato, sembrerebbe di trovare un esempio di serial killer organizzato che, secondo la moderna criminologia, si tratta di un criminale che in genere è dotato di una certa intelligenza, con buoni rapporti sociali, che sa pianificare con cura i delitti, selezionando le vittime ed i luoghi e senza lasciare nulla al caso.

La personalità di Callisto Grandi appare, in realtà, difficilmente identificabile ad una specifica categoria criminale e, a tale difficoltà, contribuiscono alcune se dichiarazioni riferite alle vittime. <<Un altro venne nella mia bottega il giorno della vigilia di San Giuseppe. Mi fece la biricchinata di versarmi tre libre di tinta. Gli detti una palata, lo ammazzai e lo seppellii in bottega, nello sterrato. A fare la buca ci mettevo presto perchè era terra morbida>> e riguardo un’altra vittima disse <<Un altro mi cacò nel carbone, lo uccisi e lo seppellii nella buca voltato in su con la faccia e nella bocca gli pigiai la terra e coprii tutto il corpo di terra e sopra ci misi la segatura>>.

A tradire il Grandi non furono le piccole fosse, come egli credette, ma il mancato omicidio di quella che sarebbe dovuta essere la sua quinta vittima: Amerigo Turchi di 9 anni. Il bambino fu salvato in extremis prima di venire schiacciato dalla pesante ruota. Colto in flagranza di reato, lo spazio di difesa del Grandi era essenzialmente limitato a non determinare vantaggi concreti ad un criminale che mai negò le proprie colpe. Il nodo della questione si concentrava sulla sanità mentale dell’imputato ed i giudici si avvalsero di ipotesi interpretative allora piuttosto diffuse, come la relazione tra l’aspetto fisico e quello psichico. Senza dubbio il Grandi non appariva mentalmente stabile ma le sue anomalie psichiche offrirono spunti per cercare di consolidare le teorie legate all’atavismo.

Per il Tribunale, però, Callisto Gradi non era un pazzo: i suoi crimini era determinati da un insaziabile sete di vendetta ed organizzati lucidamente. Fu condannato a vent’anni di lavori forzati. Lombroso non fu dello stesso parere dei giudici ed utilizzò spesso questa vicenda per parlare del confronto tra giustizia e psichiatria: secondo il fondatore della antropologia criminale, un assassino come l’ammazzabambini avrebbe dovuto finire subito in un manicomio. Di certo tutti i torti non li aveva, infatti nell’ottobre del 1895, dopo aver scontato i vent’anni di lavori forzati, il Callisto Grandi fu immediatamente rinchiuso in manicomio dove trascorse gli ultimi sedici anni della sua vita. Morì nel 1911.