CRIMINOLOGIA e DIRITTO

I SERIAL KILLER: La jena di San Giorgio

jenaLa storia di questo secondo Serial Killer italiano è ambientata nello splendido paesaggio canavesano, in un’area delle provincie di Torino colma di arte e di storia. E’ una storia cruda ed orribile ma che ancora oggi è viva e fa parte di diverse leggende e racconti popolari usati per spaventare i bambini. Una storia i cui documenti non è stato facile reperire ed alcune testimonianze ci derivano da un certo Avvocato R. di cui ignoriamo le generalità ma che dimostra di avere conoscenza delle teorie sulla fisiognomica che solo 10 anni dopo verranno applicate alla criminologia. Si parla di <<un uomo dalla fisionomia tetra, sguardo torbido ed irrequieto, lunga barba, cranio irregolare, mascella inferiore molto più piccola della superiore>>.

Nato il 3 giugno 1803 da Antonio Orsolano e Margherita Gallo, quando la madre rimase vedova, Giorgio fu mandato da uno zio prete, fratello della madre, perchè provvedesse alla sua educazione ed alla sua istruzione. Pare che ogni tentativo risultasse vano e così il giovane fu rimandato alla madre. Ritornato nel paese nativo, condusse parecchi anni dedicandosi più all’osteria che al lavoro. Il furto divenne una fonte di sostentamento a cui si aggiunse il tentativo, nel 1823, di stuprare una giovane donna, Teresa Pignocco di 16 anni, recatasi con la madre nei boschi ed intenta a raccogliere l’erba. Questa fu violentemente assalita e gettata in terra dopo un primo approccio da parte dell’Orsolano per convincerla ad avere un rapporto sessuale con lui dietro la promessa di denaro. Per tutti questi reati venne condannato <<alla catena per un anno (per il tentativo di stupro) ed a sette per gli altri capi (furti, tra cui anche in chiesa)>>.

Dopo la condanna, scontata prima del termine previsto per buona condotta, si sposò con una vedova di 24 anni Domenica Nigra e, ritornato al paese natio, aprì una bottega di “intagliatore e salsicciaio”, dando così una parvenza di normalità alla sua esistenza. Mentre la vita dell’Orsolano procedeva apparentemente senza rivelare alcuna anomalia, nel paese di San Giorgio Canavese iniziarono a verificarsi alcuni fatti inquietanti.

Il 24 giugno 1832 scomparve Caterina Givogre, di 9 anni, e di lei non si seppe più nulla. L’inquietudine aumentò notevolmente il 14 febbraio 1833 quando un’altra bambina, Caterina Scavarda, di 10 anni, non fece ritorno a casa. Anche in questo caso le ricerche furono del tutto infruttuose e la tragedia venne attribuita all’opera di lupi che allora si aggiravano numerosi.

Intanto l’Orsolano con la moglie, dalla quale ebbe un figlio, cambiò attività ed iniziò a vendere vino e commestibili. La “Jena di San Giorgio” forse aveva maturato la consapevolezza di riuscire a farla franca e, quindi, divenne imprudente e, come spesso accade in questi casi, si scoprì a tal punto da farsi sorprendere.

Il 3 marzo 1835, giorno del mercato di San Giorgio Canavese, l’Orsolano si recò tra le bancarelle per alcuni acquisti. Prese numerose uova da Francesca Tonso di Montalenghe, di 14 anni, ed invitò la giovane a seguirlo a casa, dove l’avrebbe pagata ma non appena la giovane valicò il portone per lei non ci fu più nulla da fare.

Naturalmente l’assenza di Francesca non passò inosservata e già in serata cominciarono le ricerche. La fisionomia del suo accompagnatore venne rapidamente abbozzata da numerosi testimoni. Quando, però, i genitori della scomparsa si recarono dall’Orsolano, per avere ragguagli circa la scomparsa dello loro figlia, furono scacciati in malo modo. Neppure le autorità ebbero modo di intervenire perchè mancavano completamente le prove per incriminare il sospettato. La mancanza di ogni cautela da parte dell’assassino finì per inchiodarlo ai suoi crimini: infatti qualcuno scoprì nel suo giardino un paio di zoccoli, un cappellino ed alcuni brandelli di tessuto che furono rapidamente riconosciuti dai genitori di Francesca come parti dell’abbigliamento della loro figlia.

Il giudice, pertanto, rilasciò un mandato di perquisizione che portò al rinvenimento di un sacco sporco di sangue, probabilmente utilizzato dall’Orsolano per trasferire il cadavere da occultare. L’indiziato venne arrestato ma continuò a negare ogni addebito dichiarandosi del tutto estraneo alla questione. In realtà sapeva che le povere cose rinvenute a casa sua appartenevano alla giovane Francesca da lui violentata, uccisa e fatta a pezzi. I resti giacevano in alcune fosse scavate sulla riva di un torrente.

Poi, una notte, forse perchè stravolto dall’alcool o perchè illuso dalla prospettiva di essere riconosciuto insano di mente, e quindi di vedere mitigata la pena, l’Orsolano confessò l’omicidio della Tonso ed indicò il luogo in cui aveva occultato il cadavere. Dopo la confessione l’Orsolano venne trasferito nel più sicuro castello di Ivrea, poichè in varie occasioni la gente del posto ed insorta ed invocava il linciaggio: si era anche diffusa la voce che la “jena” (così venne chiamata per i suoi delitti) avesse mangiato alcuni brandelli di carne della vittima.

Gli vennero attribuiti anche i delitti delle due bambine scomparse nel 1832 e nel 1833. I loro cadaveri, in particolare quello della seconda, furono gettati in modo da dissimulare l’omicidio lasciando invece intendere che l’origine del massacro fosse attribuibile ai lupi. Dopo la lettura della sentenza di condanna, l’Orsolano confessò di aver mangiato la carne delle due fanciulle prima uccise e di averne fatto del prosciutto che poi ha venduto al pubblico e che la stessa cosa avrebbe fatto alla terza vittima se non fosse stato scoperto.

Il giorno in cui fu eseguita la sentenza di condanna a morte, la cittadina canavese si riempì di persone. In tanti erano accorsi certi di vedere <<un gigante, un mostro o una bestia>>, ricorda una cronaca dell’epoca, ma <<restarono tutti delusi nel vedere un uomo come tanti altri: piccolo di statura, pelle del viso bianca e rossa, capelli castani. L’unica cosa che lo deformava un poco era la mancanza di un occhio che cercava di nascondere con un brano di capelli>>.

L’università di Torino invitò tre chirurghi per esaminare il corpo e fu portato via il capo ed i testicoli, questi perchè più voluminosi del solito. Il suo cranio è oggi in mostra nel Museo di Antropologia Criminale di Torino.